Il ruolo delle sedentarietà nelle patologie croniche: analisi evoluzionistica e meccanismi fisiopatologici

Mentre nei precedenti articoli si è cercato di delineare i benefici dell’attività fisica, ora vediamo quali sono gli effetti del suo opposto, ovvero la sedentarietà.

Innanzitutto iniziamo con il definire inattività fisica: qualsiasi riduzione del movimento fisico che comporta una riduzione del consumo energetico verso i valori a riposo.

Concetti preliminari

Prima di un’analisi delle varie patologie, vediamo alcuni concetti generali, sottesi a ciascuna situazione specifica.

  1. Sebbene la definizione di sedentarietà sia essenzialmente opposta a quella di attività fisica, i meccanismi biologici e molecolari non sono il semplice contrario. Spesso le vie molecolari influenzate da una vita sedentaria sono completamente diverse da quelle interessate dall’esercizio aerobico (vedi articolo precedente)
  2. C’è evidenza epidemiologica che l’inattività fisica provochi fattori di rischio che, a loro volta, aumentano la morbidità e la mortalità. Nel 1990, Hann et al. hanno dimostrato che uno stile di vita sedentario ha contribuito per un 23% di eccesso di mortalità per nove delle principali patologie croniche1
  3. Allo stesso modo, è stato dimostrato che sia una componente genetica che ambientale contribuiscono all’insorgenza di fattori di rischio che provocano a loro volta un incremento di morbidità e mortalità. Studi su gemelli omozigoti hanno evidenziato come il fattore ambientale concorra per circa il 55% della variabilità degli effetti di una vita sedentaria, mentre il fattore genetico per circa un 31%2
  4. Il tempo necessario perché si manifestino gli effetti negativi di una vita sedentaria è spesso misurato in decenni. Per questo la correlazione con la patologia cronica è difficilmente percepita dal paziente, anche perché spesso la progressione della malattia è lenta (es. diabete mellito di tipo 2)
  5. Il persistere di uno stato di inattività fisica accelera il declino fisiologico della fitness cardiorespiratoria e di forza muscolare
  6. Spesso la correlazione tra le patologie croniche e inattività fisica è poligenica. In altre parole, è difficile avere un legame tra una sola variante genetica/inattività fisica/insorgenza di malattia che abbia una prevalenza nella popolazione così importante da essere clinicamente rilevante3
  7. Si può speculare che durante la selezione naturale gli adattamenti correlati a un “genotipo sedentario” abbiano costituito una sorta di vantaggio alla sopravvivenza e che pertanto siano stati selezionati4. Sappiamo che a livello muscolare esistono due risposte ben distinte agli stimoli ambientali, correlati a un’attività fisica di endurance (biogenesi mitocondriale) o di forza (ipertrofia). La medicina darwiniana suggerisce che la sopravvivenza della specie dipende proprio dalla rapida risposta dell’organismo a questi stimoli. Questo spiegherebbe perché con l’inattività si perdono in breve tempo gli adattamenti accumulati. È chiaramente un’ipotesi, che va ulteriormente approfondita e validata.
  8. Sulla base di alcuni studi5 , il “fenotipo sedentario” potrebbe cominciare a manifestarsi intorno alla pubertà

Caratteristiche dell’inattività fisica

Nel 2020 la WHO ha ridefinito la quantità minima di esercizio fisico da eseguire, suddividendo la popolazione in alcune fasce d’età e aumentando la dose ritenuta necessaria (https://apps.who.int/iris/bitstream/handle/10665/336656/9789240015128-eng.pdf?sequence=1&isAllowed=y).

In particolare, per un soggetto adulto sano sono raccomandati almeno 150-300 minuti di attività fisica aerobica moderata a settimana o, in alternativa, almeno 75-150 minuti di attività fisica aerobica vigorosa. A ciò si deve aggiungere un’attività di potenziamento muscolare per almeno due volte a settimana. Si invita poi a limitare al minimo il tempo trascorso in modo sedentario.

Si stima che circa il 25% della popolazione mondiale non raggiunga i livelli minimi proposti. Se si guarda il mondo adolescenziale, la situazione è ancora peggiore: più dell’80% non è sufficientemente attivo. 

Non raggiungere i livelli minimi di attività fisica raccomandata significa aumentare il proprio rischio di morte di un 20-30%. Si potrebbero evitare fino a cinque milioni di morti ogni anno se la popolazione mondiale fosse più attiva. Per dare un ordine di grandezza, si stima che il COVID-19 abbia causato nel 2020 poco meno di due milioni di morti. Ecco perché si deve parlare di una vera e propria pandemia da sedentarietà.

Effetti dell’inattività fisica sul sistema nervoso centrale

I primi studi effettuati sul rapporto tra attività fisica e funzionalità cerebrale hanno riguardato soprattutto gli effetti positivi che l’esercizio apporta. È così emerso che a qualsiasi età esiste una correlazione positiva6. Si è poi visto che nei bambini di età compresa tra i 4 e i 18 anni un incremento di attività fisica è fortemente correlato a un miglior risultato scolastico, miglior accrescimento del quoziente intellettivo, capacità di eseguire esercizi di vario tipo, superiore raggiungimento accademico7.

Sebbene siano risultati importanti, questo non significa che una vita sedentaria comporti un peggioramento delle proprie funzionalità. Ci si è quindi concentrati sugli effetti dell’inattvità fisica.

Da uno studio8 è così emerso che un basso livello di attività fisica predisponde le donne a un maggior rischio di decadimento cognitivo del 72%, di morbo di Alzheimer del 100% e di demenza senile del 59%. Altri studi hanno confermato questo trend nella popolazione.

Sebbene tale riscontro sia inequivocabile, purtroppo a oggi non è ancora certo il meccanismo fisiologico. L’attività fisica sembrerebbe incrementare il rilascio di fattori di crescita come il BDNF, il VEGF e l’IGF-1, che concorrono a una maggior plasticità ippocampale e a un beneficio sulla memoria9,10,11,12,13. Altro aspetto da approfondire è se esiste una correlazione tra il livello di fitness cardiopolmonare (il proprio VO2max) e il grado di riduzione del regresso delle proprie capacità cognitive atteso.

L’altra grosso rischio correlato alla sedentarietà è l’aumentata incidenza di ansia e depressione. Il National Physical Activity Guidelines Report14 ha evidenziato come i soggetti inattivi hanno circa il 45% di probabilità in più di manifestare tratti depressivi. Analogamente, i disturbi di tipo ansioso aumentano di circa 1.38 volte. I meccanismi molecolari sembrano essere correlati in entrambi i casi a una riduzione di neurotrasmettitori e fattori neurotrofici, così come a una riduzione dei livelli di norepinefrina circolante.

Effetti dell’inattività fisica sul sistema cardiorespiratorio

Fisiologicamente la nostra fitness cardiorespiratoria (CRF) aumenta fino alla tarda adolescenza, per poi subire un lento e costante decremento. Sono due i fattori che concorrono a tale fenomeno: l’invecchiamento biologico e la progressiva inattività. 

Fortunatamente l’attività aerobica può rallentarne la discesa in maniera sostanziale, tanto che, come si può apprezzare nei grafici sottostanti, esistono soggetti settantenni con un VO2max comparabile a quello di adulti trentenni non allenati.

Figura 1. Andamento della riduzione del VO2max con il progredire dell’età in diverse sottopopolazioni. Grafico A da Heath et al. (1981), B da Tanaka et al. (1985), C da Trappe et al. (1985)

Intuitivamente, maggiore è la CRF, minore il rischio di patologie cardiovascolari. Esiste una correlazione diretta dose-risposta tra volume di allenamento (durata x intensità) e CRF massima15,16

In particolare, la mortalità comincia ad aumentare quando la CRF massima scende sotto i 10 METs.

Come già accennato, la CRF massima non è un valore fisso, ma è influenzata dal nostro stile di vita. È importante sottolineare che il declino non è completamente irreversibile. Adulti con una CRF massima bassa possono, mediante l’allenamento, aumentarla, fino a raggiungere un livello sufficientemente protettivo.

Quello che è meno chiaro è il meccanismo fisiologico con cui l’inattività produca i proprio effetti negativi. Sicuramente l’assenza degli stimoli emodinamici che comporta l’esercizio fisico è alla base della disfunzione endoteliale e del rimodellamento arterioso che si sviluppano. Altre ipotesi sono legate a un minor tono vagale, così da avere una maggiore HRV (Heart Rate Variability, ovvero la variabilità della frequenza cardiaca, un paramentro che correla con lo stress del nostro sistema nervoso autonomo), e un maggior tono basale del sistema simpatico, che si ripercuote su una maggior pressione arteriosa. 

Effetti sul metabolismo

Sicuramente uno dei più importanti fattori che influenzano il metabolismo e l’utilizzo dei substrati energetici è l’inattività fisica.

Se si applica la medicina darwiniana si può ipotizzare che il nostro organismo si è adattato per sopravvivere a un’alternanza di disponibilità e assenza di cibo, nonché a un’alternanza di fasi attive (es. caccia) e di riposo. Così, qualora si intraprende un programma di restrizione calorica, il nostro organismo reagisce riducendo il proprio fabbisogno, ostacolando il calo ponderale17, proprio perché percepisce la situazione come momento di “carestia”. 

Oggigiorno questa dualità si è interrotta: assistiamo sia a un maggior apporto calorico, sia a una maggiore inattività. Questo inevitabilmente determina un aumento ponderale e una maggiore adiposità. 

L’altro grosso capitolo delle conseguenze metaboliche dell’inattività fisica è l’insulino resistenza. Il glucosio, una volta assorbito, può essere immagazzinato come glicogeno in due sedi: fegato e tessuto muscolare. Questo ha un ruolo critico, specialmente in situazioni post prandiali e qualora le riserve glicogeniche non siano complete (es. dopo attività fisica). Se il tessuto muscolare viene utilizzato regolarmente ha un’elevata richiesta energetica e dunque è necessario che una quantità sufficiente di glucosio entri nelle cellule muscolari. Questo fa sì che esso mantenga un’elevata insulino sensibilità, che permette prorpio l’inclusione di glucosio dal torrente ematico. Viceversa, in un soggetto sedentario, le richieste energetiche sono scarse e le riserve di glicogeno elevate. L’insulino sensibilità così diminuisce. A conferma di ciò, basti pensare che negli atleti di endurance sono sufficienti due soli giorni di inattività per avere la stessa insulino sensibilità di un coetaneo inattivo18. Senza addentrarci troppo nei particolari, quello che succede a livello cellulare è una minor espressione di recettori per l’insulina e per il glucosio (GLUT4). 

È questo il motivo per cui si consiglia di svolgere attività fisica quotidianamente: in questi soggetti è estremamente raro trovare insulino resistenza.

Un ultimo aspetto, se si vuole curioso, è che non è importante solo il tempo totale trascorso in modo sedentario, ma anche come questo è distribuito. In altre parole, a parità di inattività, coloro i quali hanno interrotto la propria sedentarietà a intervalli regolari (es. alzandosi dalla sedia) hanno mostrato livelli migliori dei marker di rischio metabolico19.

Effetti sul tessuto adiposo

Sebbene una volta il tessuto adiposo fosse considerato una sorta di tessuto inerte, grazie agli studi di Friedman si è cominciato a intuire il suo ruolo attivo nel sistema endocrino, in particolare mediante il rilascio dell’ormone leptina20.

Diversi studi hanno corroborato l’ipotesi che non sia solo un eccessivo introito calorico a generare sovrappeso e obesità, bensì anche una pronunciata inattività. 

Uno studio sulla popolazione Amish21 ha mostrato come i soggetti maschi avessero un maggior consumo energetico rispetto ai coetanei non Amish, ma un tasso di obesità prossimo allo 0%, contro il 35%. La differenza sostanziale è stata riscontrata nel numero di passi quotidiani. 

Si è visto anche che l’andamento dell’incidenza di obesità negli Stati Uniti nel secolo scorso correla con il numero di autovetture vendute22. Analogamente, a Cuba si è assistito a un incremento della prevalenza di obesità del 58% quando si sono ridotti gli spostamenti in bicicletta del 35% e l’intake calorico è aumentato del 30%23.

È proprio l’inattività il primum movens per la comparsa di insulino resistenza, cui segue un alterato signaling insulinico a livello sistemico e un maggior deposito dell’eccesso di glucosio e acidi grassi a livello del tessuto adiposo. A tutto questo si aggiunga la comparsa di molecole pro infiammatorie, che creano un quadro ancor peggiore.

Purtroppo una recente meta analisi24 ha mostrato come i bambini e gli adolescenti obesi abbiano un rischio più di cinque volte maggiore di diventare adulti obesi. Di contro, circa il 70% degli adulti obesi non lo era in giovane età. Diventa dunque fondamentale mantenere un corretto stile di vita per tutto l’arco della nostra vita.

Effetti sul tessuto muscolare

Riprendendo uno dei concetti iniziali (numero 5), ovvero che l’inattività cronica peggiora il declino della massa e della forza muscolare, di per sè fisiologici. Si parla spesso di sarcopenia, anche se la definizione non è univoca. C’è chi intende solo la perdita di massa e chi implica anche una perdita di forza e di capacità funzionale. Effettivamente questo sembra essere un paramentro che correla meglio con il tasso di mortalità24.

La sarcopenia nell’uomo inizia fin dalla terza decade di vita, con una forte accelerata intorno ai cinquanta anni. I meccanismi molecolari sottesi sono poco chiari. Anche in questo ambito è importante sottolineare che gli effetti dell’inattività non sono spiegabili fisiologicamente come il contrario degli adattamenti all’attività fisica. In particolare, si manifesta un incremento della degradazioni proteica, fenomeno che comunque compare anche in caso di ipertrofia25.

Di fatto, quello che si viene a creare nell’anziano è un circolo vizioso tra sarcopenia e inattività, che peggiora progressivamente, a meno di intervenire con esercizi di potenziamento muscolare. In questo senso, la soluzione migliore è intervenire già intorno la quarta decade di vita, senza aspettare la comparsa conclamata di sarcopenia.

Effetti sul tessuto osseo

Circa il 60% del rischio di sviluppare osteoporosi è da correlare al picco di massa ossea che si raggiunge durante la gioventù26. A 18 anni si ha già circa il 90% del picco di massa ossea26. Si è visto che i ragazzi poco attivi raggiungono un picco di massa ossea inferiore di circa il 10-20% rispetto ai coetanei attivi27.

Analogamente, un minor picco di massa ossea predisponde a una maggior incidenza di fratture ossee in età adulta. Aspetto non da sottovalutare, visto che la frattura del femore è uno dei principali fattori precipitanti l’aspettativa di vita nell’anziano.

A livello molecolare, l’effetto dell’inattività sembra essere legato in particolare a due modulatori: la sclerostina e il recettore RANKL. Il primo ha la funzione principale di inibire la neoformazione ossea, mentre il secondo controlla la replicazione e la sopravvivenza degli osteoclasti, cellule preposte alla degradazione della matrice ossea. Siccome il principale stimolo rigenerativo a livello osseo è il carico gravitazionale, qualora questo venga a mancare, come in caso di allettamento prolungato o di scarso movimento, si assite a un incremento di sclerostina e di RANKL, che congiuntamte determinano dunque una progressiva perdita di massa ossea.

Svolgere attività fisica che preveda un carico gravitazionale è fondamentale quindi a qualsiasi età. Nel giovane concorre al raggiungimento del picco di massa ossea, nell’adulto e nell’anziano a preservarla. Spiegato anche il motivo per cui in un paziente osteoporotico il nuoto non sia l’attività più congeniale.

Effetti sul sistema immunitario

La relazione tra attività fisica e sistema immunitario è particolare. Potremmo definirla a U. Se da una parte una mancanza di movimento concorre a un indebolimento delle nostre difese, dall’altra anche un eccesso può provocare immunosoppressione (vedi atleti professionisti in sport di endurance). In medium stat virtus.

In caso di inattività il meccanismo fisiologico alla base è un incremento di tessuto adiposo viscerale e la conseguente attivazione di un signaling pro infiammatorio.

Effetti sul sistema digerente

Il principale effetto che la sedentarietà comporta sul sistema digerente è la regolazione della microbiota intestinale, ovvero quell’insieme di popolazioni batteriche che normalmente colonizzano il nostro intestino. Sono batteri “buoni”, che concorrono a una regolare funzionalità del nostro intestino, influenzando la digestione e l’assorbimento di molti macro e micronutrienti.

Diversi studi hanno mostrato come la microbiota degli atleti di endurance sia differente da quella della normale popolazione. Questa a sua volta differisce da quella riscontrata nei pazienti obesi.

Purtroppo non si ha ancora una conoscenza approfondita dei meccanismi fisiologici e di come poter intervenire per modificarla con successo.

Effetti sulla neoformazione e sulla recidiva neoplastica

È questo un campo in forte espansione. Sebbene alcuni studi abbiano mostrato una certa correlazione28, è spesso difficile stabilire con precisione il rapporto causa effetto, anche per la latenza che intercorre tra uno stile di vita sedentario e la comparsa di neoplasia (vedi punto 4).

Le due neoplasie analizzate in maggior dettaglio sono quella mammaria e quella colorettale. Per la prima si ipotizza un effetto legato a una maggior adiposità, fattori correlati all’insulina, adipochine (citochine rilasciate dal tessuto adiposo) e stato pro infiammatorio29. Per la seconda insulino resistenza, fattori di crescita, disfunzione del sistema immunitario, adiposità viscerale e impatto sulla microbiota30.

Serviranno ulteriori studi per chiarire un meccanismo che sicuramente è multifattoriale.

Conclusioni

L’inattività fisica è alla base di una moltitudine di patologie croniche. Per molte di essere esiste una speigazione molecolare, per altre invece si tratta ancora solo di ipotesi. La correlazione è però chiara ed evidente per tutte.

La sedentarietà causa ogni anno circa 5 milioni di vittime. È una pandemia silente, con poca mediaticità, che passa spesso sotto traccia. In una popolazione in cui l’età media aumenta sempre di più, prenderne coscienza è il primo passo per garantirsi un futuro migliore. 

Non rimane altro da fare che muoversi.

Referenze

  1. Hahn RA, Teutsch SM, Rothenberg RB, Marks JS. Excess deaths from nine chronic diseases in the United States, 1986. JAMA 264: 2654–2659, 1990. doi:10.1001/jama. 1990.03450200062032
  2. Den Hoed M, Brage S, Zhao JH, Westgate K, Nessa A, Ekelund U, Spector TD, Wareham NJ, Loos RJ. Heritability of objectively assessed daily physical activity and sedentary behavior. Am J Clin Nutr 98: 1317–1325, 2013. doi:10.3945/ajcn.113.069849
  3. Bouchard C, Leon AS, Rao DC, Skinner JS, Wilmore JH, Gagnon J. The HERITAGE family study. Aims, design, and measurement protocol. Med Sci Sports Exerc 27: 721–729, 1995. doi:10.1249/00005768-199505000-00015
  4. Goldberg AL, Dice JF. Intracellular protein degradation in mammalian and bacterial cells. Annu Rev Biochem 43: 835–869, 1974. doi:10.1146/annurev.bi.43.070174.004155
  5. Marck A, Berthelot G, Foulonneau V, Marc A, Antero-Jacquemin J, Noirez P, Bronikowski AM, Morgan TJ, Garland T Jr, Carter PA, Hersen P, Di Meglio JM, Toussaint JF. Age-related changes in locomotor performance reveal a similar pattern for Caenorhabditis elegans, Mus domesticus, Canis familiaris, Equus caballus, and Homo sapiens. J Gerontol A Biol Sci Med Sci 72: 455–463, 2017. doi:10.1093/gerona/glw136
  6. Hillman CH, Erickson KI, Kramer AF. Be smart, exercise your heart: exercise effects on brain and cognition. Nat Rev Neurosci 9: 58–65, 2008. doi:10.1038/nrn2298
  7. Etnier JL, Nowell PM, Landers DM, Sibley BA. A meta-regression to examine the relationship between aerobic fitness and cognitive performance. Brain Res Brain Res Rev 52: 119–130, 2006. doi:10.1016/j.brainresrev.2006.01.002
  8. Laurin D, Verreault R, Lindsay J, MacPherson K, Rockwood K. Physical activity and risk of cognitive impairment and dementia in elderly persons. Arch Neurol 58: 498–504, 2001. doi:10.1001/archneur.58.3.498
  9. Coelho FG, Gobbi S, Andreatto CA, Corazza DI, Pedroso RV, Santos-Galduróz RF. Physical exercise modulates peripheral levels of brain-derived neurotrophic factor (BDNF): a systematic review of experimental studies in the elderly. Arch Gerontol Geriatr 56: 10–15, 2013. doi:10.1016/j.archger.2012.06.003
  10. Erickson KI, Voss MW, Prakash RS, Basak C, Szabo A, Chaddock L, Kim JS, Heo S, Alves H, White SM, Wojcicki TR, Mailey E, Vieira VJ, Martin SA, Pence BD, Woods JA, McAuley E, Kramer AF. Exercise training increases size of hippocampus and improves memory. Proc Natl Acad Sci USA 108: 3017–3022, 2011. doi:10.1073/pnas. 1015950108
  11. Maass A, Düzel S, Brigadski T, Goerke M, Becke A, Sobieray U, Neumann K, Lövdén M, Lindenberger U, Bäckman L, Braun-Dullaeus R, Ahrens D, Heinze HJ, Müller NG, Lessmann V, Sendtner M, Düzel E. Relationships of peripheral IGF-1, VEGF and BDNF levels to exercise-related changes in memory, hippocampal perfusion and volumes in older adults. Neuroimage 131: 142–154, 2016. doi:10.1016/j.neuroimage. 2015.10.084. 
  12. Vital TM, Stein AM, de Melo Coelho FG, Arantes FJ, Teodorov E, Santos-Galduróz RF. Physical exercise and vascular endothelial growth factor (VEGF) in elderly: a systematic review. Arch Gerontol Geriatr 59: 234–239, 2014. doi:10.1016/j.archger.2014.04.011
  13. Voss MW, Erickson KI, Prakash RS, Chaddock L, Kim JS, Alves H, Szabo A, Phillips SM, Wójcicki TR, Mailey EL, Olson EA, Gothe N, Vieira-Potter VJ, Martin SA, Pence BD, Cook MD, Woods JA, McAuley E, Kramer AF. Neurobiological markers of exercise related brain plasticity in older adults. Brain Behav Immun 28: 90–99, 2013. doi:10.1016/j.bbi.2012.10.021
  14. United States Department of Health and Human Services. 2008 Physical Activity Guidelines for Americans: Be Active, Healthy, and Happy! Washington, DC: U.S. Dept. of Health and Human Services, 2008, p. ix
  15. Sisson SB, Katzmarzyk PT, Earnest CP, Bouchard C, Blair SN, Church TS. Volume of exercise and fitness nonresponse in sedentary, postmenopausal women. Med Sci Sports Exerc 41: 539–545, 2009. doi:10.1249/MSS.0b013e3181896c4e 
  16. Swift DL, Johannsen NM, Lavie CJ, Earnest CP, Johnson WD, Blair SN, Church TS, Newton RL Jr. Racial differences in the response of cardiorespiratory fitness to aerobic exercise training in Caucasian and African American postmenopausal women. J Appl Physiol (1985) 114: 1375–1382, 2013. doi:10.1152/japplphysiol.01077.2012
  17. Ferrannini E, Rosenbaum M, Leibel RL. The threshold shift paradigm of obesity: evidence from surgically induced weight loss. Am J Clin Nutr 100: 996–1002, 2014. doi:10.3945/ajcn.114.090167
  18. Burstein R, Polychronakos C, Toews CJ, MacDougall JD, Guyda HJ, Posner BI. Acute reversal of the enhanced insulin action in trained athletes. Association with insulin receptor changes. Diabetes 34: 756–760, 1985. doi:10.2337/diab.34.8.756
  19. Healy GN, Dunstan DW, Salmon J, Cerin E, Shaw JE, Zimmet PZ, Owen N. Breaks in sedentary time: beneficial associations with metabolic risk. Diabetes Care 31: 661–666, 2008. doi:10.2337/dc07-2046
  20. Friedman J. 20 years of leptin: leptin at 20: an overview. J Endocrinol 223: T1–T8, 2014. doi:10.1530/JOE-14-0405
  21. Bassett DR, Schneider PL, Huntington GE. Physical activity in an Old Order Amish community. Med Sci Sports Exerc 36: 79–85, 2004. doi:10.1249/01.MSS.0000106184. 71258.32
  22. Komlos J, Brabec M. The trend of BMI values of US adults by centiles, birth cohorts 1882–1986. National Bureau of Economic Research Working Paper Series, No. 16252, 2010
  23. Franco M, Bilal U, Orduñez P, Benet M, Morejón A, Caballero B, Kennelly JF, Cooper RS. Population-wide weight loss and regain in relation to diabetes burden and cardiovascular mortality in Cuba 1980-2010: repeated cross sectional surveys and ecological comparison of secular trends. BMJ 346: f1515, 2013. doi:10.1136/bmj.f1515
  24. Newman AB, Kupelian V, Visser M, Simonsick EM, Goodpaster BH, Kritchevsky SB, Tylavsky FA, Rubin SM, Harris TB. Strength, but not muscle mass, is associated with mortality in the health, aging and body composition study cohort. J Gerontol A Biol Sci Med Sci 61: 72–77, 2006. doi:10.1093/gerona/61.1.72
  25. Laurent GJ, Sparrow MP, Millward DJ. Turnover of muscle protein in the fowl. Changes in rates of protein synthesis and breakdown during hypertrophy of the anterior and posterior latissimus dorsi muscles. Biochem J 176: 407–417, 1978. doi: 10.1042/bj1760407
  26. Baxter-Jones AD, Faulkner RA, Forwood MR, Mirwald RL, Bailey DA. Bone mineral accrual from 8 to 30 years of age: an estimation of peak bone mass. J Bone Miner Res 26: 1729–1739, 2011. doi:10.1002/jbmr.412
  27. Bailey DA, McKay HA, Mirwald RL, Crocker PR, Faulkner RA. A six-year longitudinal study of the relationship of physical activity to bone mineral accrual in growing children: the University of Saskatchewan bone mineral accrual study. J Bone Miner Res 14: 1672–1679, 1999. doi:10.1359/jbmr.1999.14.10.1672
  28. Moore SC, Lee IM, Weiderpass E, Campbell PT, Sampson JN, Kitahara CM, Keadle SK, Arem H, Berrington de Gonzalez A, Hartge P, Adami HO, Blair CK, Borch KB, Boyd E, Check DP, Fournier A, Freedman ND, Gunter M, Johannson M, Khaw KT, Linet MS, Orsini N, Park Y, Riboli E, Robien K, Schairer C, Sesso H, Spriggs M, Van Dusen R, Wolk A, Matthews CE, Patel AV. Association of leisure-time physical activity with risk of 26 types of cancer in 1.44 million adults. JAMA Intern Med 176: 816–825, 2016. doi:10.1001/jamainternmed.2016.1548
  29. Friedenreich CM. Physical activity and breast cancer: review of the epidemiologic evidence and biologic mechanisms. Recent Results Cancer Res 188: 125–139, 2011 doi:10.1007/978-3-642-10858-7_11
  30. Wolin KY, Yan Y, Colditz GA, Lee IM. Physical activity and colon cancer prevention: a meta-analysis. Br J Cancer 100: 611–616, 2009. doi:10.1038/sj.bjc.6604917

Share this :

Leave a Comment!

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *